Oggi trattiamo iI Manicomio del Mondo, così chiamato tuttora, seppure abbia perduto la sua triste funzione.Meta di fotografi e registi, l’enorme complesso ospedaliero del frenocomio prende un’intera collina del panorama volterrano.
La particolarità di questo luogo risiede specialmente in un’opera di art-brut riconosciuta a livello internazionale, solo adesso, come patrimonio artistico. Essa è incisa sulla parete esterna di quello che era il padiglione psichiatrico giudiziario: il Ferri. Ed è proprio da questo punto che comincia la nostra storia.
Era il 1958 quando Nannetti Oreste Fernando veniva trasferito dall’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma proprio al padiglione Ferri, in seguito ad un oltraggio a pubblico ufficiale. NOF (così si firmava) ha reso all’umanità una testimonianza lunga 180 metri. Il degente passava le sue giornate ad incidere con l’ardiglione del suo panciotto, deliri, calcoli matematici, disegni, ma anche ipotetiche cause e statistiche delle strane morti in manicomio. La sua carta era il muro esterno del padiglione Ferri. Ora questi graffiti sono deteriorati e stanno scomparendo.
Quando ancora il graffito era integro, il museo di Losanna di art-brut lo ha decodificato e, con un apposito materiale, ne ha fatto una copia. A Volterra soltanto una piccola parte è stata salvaguardata e custodita.
Nannetti era solo, scriveva a parenti che non esistevano più. Come lui, con lui, lo strazio degli altri degenti era iniziato il 1887 e terminato con la legge 180, di Basaglia, che istituì la fine dell’istituzione manicomiale.
Ora, l’ex ospedale psichiatrico si trova in uno stato di degrado e abbandono, dal 1978. Formato da più padiglioni lasciati alla mercè del tempo e dei vandali, l’istituzione manicomiale di Volterra è stata una delle più importanti realtà sociali italiane. Comprendeva colonie agricole (reparto Tanzi), il macello, la falegnameria, le serre, un reparto confezionamento vestiti. La struttura era autosufficiente e dava mansione non solo agli abitanti di Volterra, e a quelli nelle sue immediate vicinanze, ma anche a quei degenti che erano in grado di lavorare. Il vasto complesso di Poggio alle Croci aveva una propria moneta (coniata a Firenze) che i pazienti potevano utilizzare nello spaccio del manicomio. Nel corso degli anni, la struttura crebbe a dismisura: se i degenti ad essere internati erano inizialmente solo gli schizofrenici, nei tempi del fascismo si arrivò a 4000 unità, tra internati e personale. Non c’era scampo dal manicomio. La povertà era una malattia. La depressione, la prostituzione e l’alcolismo erano trattate nel medesimo modo. Le donne Sarde, apparentemente affette da mutismo perché non capivano l’italiano, erano considerate “da curare”.
Arroccato vicino al Ferri, troviamo il reparto tubercolosi, il Maragliano, dedicato anche ai bambini.
Qui, le voci popolari si sprecano : si dice che, all’epoca, fossero spesso udibili i pianti irrefrenabili dei giovani inquilini. A conferma della presenza dei piccoli e innocenti ospiti, si possono ancora trovare le “mini vasche da bagno”.
I troppo giovani reclusi, spesso figli di nessuno, rimanevano per tutta la vita lì, per essere totalmente annientati dall’istituzione.
Oltre la scala di pietra, ora consumata e assediata da erbacce e radici, si trova lo Charcot, il reparto civile.
Questo spazio vide il suo completamento sotto la brillante direzione di Luigi Scabia. Grazie a quest’ultimo venne introdotto il regolare utilizzo dell’acquedotto, un impianto a benzina e di luce elettrica, oltre alla terapia del lavoro per guarire la malattia mentale. Dopo la morte dell’abile dirigente, l’istituzione divenne carceraria e i soprusi dilaganti.
Al reparto Livi, riservato alle donne agitate, le camerate accoglievano le “matte” : assassine che mettevano in forno i propri figli o uccidevano i mariti con utensili da cucina. Erano donne senza più futuro e con un martoriante passato alle spalle.
Sempre qui succedevano episodi di violenza e aggressioni tra le malate…e non solo.
La pena per chi dava sfogo alla follia era l’isolamento, oltre alla perenne estraniazione dal proprio corpo.
Poi c’erano il Padiglione Scabia ed il Verga, ora sede attiva del poliambulatorio dell’ospedale civile.
Lungo la collina, si trovava il mastodontico Chiarugi, coi vetri dipinti e le scale massicce. Quest’ultimo era adibito ai malati di TBC e, dopo qualche anno dalla sua chiusura, venne occupato: le celle non contenevano più pazienti ma strumenti musicali e alloggi di fortuna, tra colorati murales che farciscono ancora oggi questo stabile.
A tesimonianza di un passato folle permangono solo corridoi, muri decadenti e sbarre arrugginite.

Elvira Macchiavelli fa parte del gruppo toscano. Studia scienze della formazione a Firenze, coltivando l’interesse per la scrittura. Molto attiva nel panorama urbex nazionale, ha un canale youtube “Where Elvi production urbex trip”, un blog “Urbex at Info!” e ricopre inoltre il ruolo di membro fondatore del sito “esplorazioniurbane.it”.