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FRANCIA urbexVILLE e PALAZZINE abbandonate

La Villa Vittoriana della Collezionista di Bambole

Articolo di Febbraio 1, 2018Nessun commento

Ho un amico scultore, un vero artista. Si chiama Paolo Schmidlin ed un giorno mi raccontò di questo luogo e della sua storia. La sua storia inizia così…

Molti anni fa’ soggiornai per qualche giorno a Rouen, in Normandia; avevo prestato alcune sculture al Museo delle Belle Arti per una mostra. Era un marzo ventoso, con rovesci di pioggia che si alternavano a improvvisi squarci d’azzurro. Dopo ogni scroscio, la città sembrava abbandonarsi beata a quel tiepido sole nordico che preannunciava giornate più miti.
Un amico che vive lì da anni si prestava a farmi da guida. “Voglio portarti a conoscere una persona. Una collezionista. So che ti può interessare” mi disse un pomeriggio. Era al corrente dell’attrazione che esercitano su di me i giocattoli antichi, specie le bambole ottocentesche.
La casa – una villa di due piani, con la facciata in pietra e il tetto spiovente – era fuori Rouen, un po’ isolata, già in campagna.

L’edificio doveva aver visto tempi migliori: le persiane erano screpolate, disseccate dalle intemperie, le tegole macchiate di muschio. Anche lo stretto giardino di fronte aveva un aspetto incolto, con intricati cespugli di caprifoglio e vecchi roseti coriacei, mai potati da anni. Tuttavia la casa aveva una sua arcana bellezza; sarà stato per il silenzio, per gli alberi scuri che la incorniciavano sullo sfondo, o per il canale che scorreva lento dall’altra parte della strada. O forse era solo perché vi giungemmo in quell’ora in cui il pomeriggio volgeva al termine e il cielo era basso e denso di nuvole. Una bruma perlacea smorzava i colori. Dalle finestre si scorgeva all’interno la luce già accesa e, tutto questo faceva, venir voglia di entrare, per poi ritrovarsi in una dimensione di intimità e tepore.

La proprietaria era una signora anziana, magra magra, dai capelli grigi come l’abito che indossava. Polsini candidi ingentilivano l’insieme della sua figura, un po’ austera.  Il viso, segnato, conservava uno sguardo limpido, attraversato a tratti da lampi d’ironia e di una furbizia quasi infantile.
Gli interni rivelavano esattamente ciò che ti saresti aspettato: una grazia d’altri tempi, un po’ delabrè. Vecchi pavimenti in legno, tappeti aubusson usurati nei punti del quotidiano passaggio, tavolinetti con piccoli oggetti accostati a vecchie poltrone un po’ scomode, sulle quali cuscini con motivi floreali erano posti ad arte per compensare gli avvallamenti nelle imbottiture. Alle pareti qualche dipinto scuro e ricami incorniciati; sui mobili portaritratti con vecchie foto senza più contrasto, già quasi del tutto svanite. Qua e là lampade dalle luci schermate.

La sola nota di modernità era una televisione, vetusta e ingombrante, di quelle ancora con tubo catodico, piazzata in un angolo vicino a un cesto di gomitoli; dava l’dea di poter trasmettere solamente in bianco e nero. La sala principale attraversava la casa da parte a parte: in fondo una porta finestra permetteva di accedere al grande giardino sul retro che appariva umido e inospitale, reso cupo da alberi incombenti.
Dopo vari convenevoli ed un tè annacquato, la signora ci chiese se ci facesse piacere vedere la sua collezione di bambole antiche. Noi manifestammo entusiasmo (del resto era il motivo della nostra visita) e così ci fece passare da una porta laterale della sala, in uno studio buio e cupo, pervaso da un odore di chiuso, di polvere, di tessuti ammuffiti. Le due grandi finestre che danno verso il giardino sul retro sono serrate, bloccate da rampicanti inselvatichiti che si insinuano qua e là anche attraverso le stecche delle persiane, aggrovigliandosi tra loro.
“Era lo studio di papà. Non apro le imposte da anni…” ci disse “…le bambole temono la luce del sole.”
Nel locale faceva freddo, c’era qualcosa di respingente. Malgrado vi penetrasse un po’ di luce dalla porta sulla sala e dalle fessure degli infissi, l’oscurità era stranamente densa ed aveva qualcosa di vivo che metteva ansia. Quando la nostra ospite accense il lampadario centrale, la luce sembra pulsare e di tanto in tanto affievolirsi, come se ci fossero misteriosi abbassamenti di tensione. Ci accorgemmo solo allora che le grandi librerie che occupano per intero le due pareti principali, erano popolate, non da libri, ma da innumerevoli bambole in porcellana.

Queste creature pallide però avevano ben poco di giocoso e di infantile. Ci osservavano dagli scaffali con occhietti di vetro gelidi come lame, le bocche socchiuse in una smorfia… ma più che sorrisi sembravano ghigni. Alcune mostravano minuscoli denti. Ma ciò che colpisce di più è che la maggior parte di esse aveva un’aria malconcia, i capelli radi, appiccicati, acconciati con nastri smangiati; gli abiti logori, chiazzati di scuro, taluni a brandelli. I tessuti apparivano sfaldati, rosicchiati. Certi vestiti che dovevano essere chiari erano così pesantemente alonati di bruno che sembravano lasciati macerare in acqua putrida. Comunicavano qualcosa di malato e di infausto. Parecchie di loro rivelavano sinistre mutilazioni: mani, dita, mancanti… una esibiva cavità scure al posto degli occhi, un’altra ancora aveva la porcellana del viso aperta come una ferita.

L’atmosfera si fa più ansiosa ed incalzante. Io e il mio accompagnatore avvertiamo entrambi un brivido lungo la schiena. Lo intuiamo guardandoci in faccia.
“Sapete, queste bambole hanno tutte una storia un po’ particolare…” commenta la signora sorridendo “hanno fatto compagnia a tanti bambini nel loro lungo sonno.” Noi ci guardiamo, ancora senza capire.
“Papà lavorava come ispettore sanitario, e fino al dopoguerra sovrintendeva alle operazioni di manutenzione funeraria dei cimiteri di tutto il nord della Francia. Quando tornava dai suoi viaggi aveva sempre una bella bambola in regalo per me.”
Cominciamo a realizzare, ma quello che intuiamo ci piace poco.
“Sapete, capitava molto di frequente che, durante le esumazioni di bambini che erano morti intorno alla fine del secolo, tornassero alla luce le loro bambole. Era uso diffuso seppellirli con accanto il giocattolo più amato. Di quei poveri piccoli, dopo anni, restavano in genere solo qualche ciocca di capelli e qualche ossicino, fragile come cenere; ma le bambole riemergevano dalle tombe quasi sempre intatte. E mio padre le salvava per me…”.

La nostra faccia assume un’espressione raccapricciata.
“Spero non vi faccia impressione… è una cosa così tenera. Per me ogni volta era una festa. Ero una ragazzina di campagna, tutte queste bambole costose avrei potuto solo sognarle. Al suo ritorno papà apriva davanti a me, che fremevo d’impazienza, una borsa di cuoio – sempre la stessa – e lì sul fondo dormiva una bambola. Lui mi raccontava di come si chiamava la bambina a cui era appartenuta, quanti anni aveva… a volte anche di come era morta. A molte di loro ho dato proprio il nome della loro “mammina” defunta. Quella lì con la cuffia di pizzo…” e ce ne indica una dall’aria affranta, con la testa di un bianco spettrale, tristemente china in avanti “…si chiama Sandrine. E’ tra le mie preferite.” Alla vecchia signora sfugge una risatina squillante che risuona in quell’aria densa e greve come un sudario.
“Non ho mai voluto ripulirle… Ho sempre avuto la sensazione che così restasse loro addosso un po’ della vita di quei bambini che le avevano tenute strette nel buio della bara. Sono state la loro unica compagnia, le amiche che li hanno confortati in quell’immensa, spaventosa solitudine. Le hanno macchiate col disfacimento dei loro corpicini. ”
Poi si fa pensierosa. Sembra che parli tra sé: “Ogni volta che papà arrivava con una nuova bambola la mia povera mamma si inalberava ed erano urla, scenate. Lei non le voleva neanche vedere, le detestava, diceva che ci portavano in casa le malattie. Figuriamoci! La verità è che lei poi è morta giovanissima… ed io sono ancora qui, alla mia età. Insieme alle mie piccole.”

Un brontolio di tuono interrompe il nostro agghiacciato silenzio. Le bambole nella luce fioca sembrano respirare. Si percepisce in modo palpabile che qualcosa di quegli sfortunati bambini è davvero rimasto attaccato a quelle creature mute. Ma non è qualcosa di poetico: è qualcosa di maligno.
“Oh, caspita… si è fatto proprio tardi! Meglio che andiamo prima che ricominci a piovere…” il mio amico cerca di guadagnare l’uscita di quello studio infestato. Io, lesto, gli vado dietro.
“Non volete fermarvi per cena? Vi preparo qualcosa di leggero… sono sempre sola”.
“Come se avessimo accettato signora, ma dobbiamo proprio rientrare. Sarà per la prossima volta.”
L’amabile vecchietta ci accompagna e si ferma sulla soglia a salutarci. Mentre ci allontaniamo, la vediamo un po’ esitante fare ciao-ciao con la manina ossuta, mentre cadono le prime pesanti gocce di pioggia.
Dentro le bambole, nell’ombra, la attendono.”

Torniamo a noi. Ovviamente, ho convinto il mio amico scultore a darmi l’indirizzo di questo luogo, e dopo ore di viaggio la trovo, davanti a me, come l’ha meticolosamente descritta, “la villa vittoriana della collezionista di bambole“. E’ ancora lì, cupa e affascinate circondata dal suo giardino malandato.
Raggiungo l’ingresso ma quando penetro la sua arcana bellezza, mi accorgo che la dimora è stata svuotata dai suoi arredi. La proprietaria è deceduta da diversi anni e gli eredi si sono preoccupati di svuotare la dimora dagli arredi e dalla particolare collezione di bambole. Poche foto di quel che resta e, deluso ma affascinato, lascio le mura di questa incredibile dimora.

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