Il pullman della Ktel vibra dallo sforzo.
Siamo partiti da circa un’ora: la cittadina di Hora Sfakion – qualcosa tipo cinquanta tornanti più sotto – è già un ricordo, inghiottito dai meandri dirupati delle Lefka Ori che stringono sempre di più la strada, prima a strapiombo sul Mar Libico e ora incuneata tra vallate di roccia chiara, lunare. Di tanto in tanto si scorge un ulivo aggrappato alla pietra e ritorto dal vento e non si capisce proprio come faccia a crescere in mezzo a tutta quella desolazione; altre volte, invece, il pullman sbanda per evitare greggi di capre in mezzo alla strada. Sul mezzo scassato ci siamo noi, una famiglia di olandesi impalliditi dalla sperdutezza e qualche solitario escursionista dai vestiti fluo. In sottofondo, musica greca e il canticchiare lento dell’autista.
Siamo nel cuore delle Montagne Bianche cretesi, nel sud-ovest della più grande isola greca: precisamente a Sfakià, terra di pastori che ha fatto della ribellione e dell’indomita fierezza la sua leggenda. E a confermarla ci pensano i cartelli crivellati dai proiettili, i teschi di capra a vari stadi di decomposizione appesi alle recinzioni e i pick-up dai vetri scuri parcheggiati sul ciglio della strada. Quassù i villaggi compaiono all’improvviso oltre le curve, dopo ore di viaggio in paesaggi aridi e spogli come cardi. Così è Anopoli, l’ultimo baluardo di vita normale prima nella nostra meta: Aradena, come indica il cartello sforacchiato. Il villaggio abbandonato sull’orlo occidentale dell’omonima gola. Il villaggio collegato al resto del mondo quando per il mondo era già morto da decenni.
Il ponte e la gola.
Per capire Aradena bisogna prima capire ciò che la circonda. A cominciare dalle Lefka Ori, le Montagne Bianche che proprio qui si spaccano verso il mare in lunghi, selvaggi canyon rocciosi. Le Gole di Aradena sono tra le più incontaminate dell’isola intera: mentre i turisti si accalcano in massa nelle Gole di Samarià, qui è ancora possibile camminare per ore senza incontrare anima viva, e farlo accompagnati dalle grida dei grifoni e delle aquile. Il villaggio – o quantomeno ciò che ne resta – è aggrappato all’orlo occidentale del canyon e anche se oggi la gola è l’unico appiglio tra il paese e il mondo dell’escursionismo europeo a caccia di wilderness, per secoli la profonda fenditura nella roccia ha contribuito a isolare la zona dal resto dell’isola. Ai paesi di Aradena e Agios Ioannis ci si poteva arrivare soltanto scendendo nel canyon da Anopoli lungo uno stretto kalderimi (parola greca che indica la mulattiera) e risalendo poi dalla parte opposta. Una faticaccia che pochi facevano volentieri.
Questo fino al 1986, quando una ricca famiglia originaria della zona regalò al minuscolo villaggio di Agios Ioannis un ponte sulla gola. L’imponente struttura di ferro pare tenere insieme i due lembi del canyon come se fossero quelli di una ferita lì lì per aprirsi: frequentato in estate dagli amanti del bungee jumping grazie ai suoi 138 metri di salto sul vuoto, il più alto ponte della Grecia e secondo in Europa ha avuto il curioso merito di regalare ad Aradena una comodità che ormai non serviva più. Nel 1986 il paese era già stato abbandonato da quarant’anni.
La faida che uccise un paese.
Il pullman supera il ponte, si ferma nel minuscolo spazio all’imbocco del paese, ci fa scendere. Un chioschetto sgangherato – con vecchie guide sbiadite, improbabili cartoline anni Ottanta e barattoli di miele e rakì (il liquore locale) dalle etichette scritte a mano – tiene assieme l’oggi e lo ieri. Noi nel mezzo. Il pullman fa manovra, prende nuovamente il ponte, sparisce. Gli escursionisti imboccano subito il sentiero verso la gola, seguendo le indicazioni inchiodate ai muretti a secco. Gli olandesi ordinano un’aranciata, scattano qualche selfie con il ponte e poi se ne vanno. Restiamo solo noi, il nostro caffè annacquato e Aradena. Per certi versi il paese esiste ancora ma non esiste più. È uno spazio permeabile, incapace di trattenere le persone che lo attraversano: nessuno si ferma, tutti passano oltre. Forse è perché si sente l’eco del sangue tra questi muri mangiati dal vento.
Aradena, che hai tempi dell’antica Grecia portava il nome di Aradin, nel periodo della resistenza cretese contro il dominio turco (a partire dal 1821) divenne uno dei paesi più tenaci contro i nemici: come nel resto della Sfakià, gli abitanti diedero ai turchi del bel filo da torcere, anche perché è in questa zona che si concentrava la maggior parte delle armi da fuoco presenti sull’isola. Pochi ma tosti, questi aradenesi.
Ma a portare Aradena alla rovina non furono né le rappresaglie turche nell’Ottocento né le vicende delle due guerre mondiali: fu una capra. Per la precisione, il suo campanaccio. Il villaggio fu infatti abbandonato nel 1947 a seguito di una sanguinosa faida scoppiata tra due famiglie di pastori locali: a scatenare la spirale di vendette in nome dell’onore fu un campanaccio di capra rubato, che pose all’inizio due giovani l’uno contro l’altro e innescò una miccia di violenza difficile da arrestare. E infatti non si arrestò: le persone che sopravvissero alla faida abbandonarono il paese, trasferendosi nella vicina Anopoli. Alle spalle, lo scheletro di un paese morto. Ucciso da una capra.
Sangue vecchio e storie mute.
C’è dell’ironia nel fatto che ora Aradena sia invece letteralmente invaso dalle capre. Sono ovunque: sbucano da ogni muro, brucano serafiche sull’uscio delle case abbandonate, si avvicinano alla ricerca di qualcosa da mangiare, si arrampicano sui cornicioni e sulle travi dei tetti sfondati. Ne notiamo un paio comodamente sdraiate su una parete diroccata, all’altezza di quello che doveva essere il primo piano di una casa: ci osservano come a rivendicare un possesso di territorio, e i loro occhi orizzontali ci seguono finché non scompariamo dalla loro vista. Cosa non difficile, visto che Aradena è un paese di angoli interrotti e di quasi zero spazi aperti.
Il villaggio ha il colore rosso scuro del sangue vecchio. Le case – vecchie abitazioni tradizionali sfakiote, con ampi cortili contornati da archi, scale e spazi di lavoro – offrono a chi passa le loro interiora di mattoni rossastri, rovi ingarbugliati e assi di legno striate dalla muffa. Sono case dagli occhi ciechi: le griglie, se c’erano, sono state scardinate dal vento delle Lefka Ori e quel che resta sono incavi vuoti. A tratti mostrano altri muri morti, a tratti un cielo mutevole strappato dai rami degli alberi. Oh, gli alberi. Sono immensi, come se l’abbandono da parte dell’uomo avesse restituito forza a una natura primordiale. Platani, fichi e ulivi sono cresciuti a dismisura nel corso dei decenni e hanno allungato ampi rami al posto dei tetti, hanno abbracciato muri e pietre e tappezzato i cumuli di macerie con foglie inumidite dalle recenti piogge. Le case, così, sembrano un po’ meno derelitte.
Nel surreale silenzio che avvolge il paese fantasma, di tanto in tanto un rumore ci coglie alla sprovvista: il belato di una capra, il cozzare di corna, un escursionista che passa come un fruscio inconsistente tra i ruderi e subito sparisce nel kalderimi verso la gola.
Percorriamo le stradine che zigzagano tra le abitazioni con addosso l’assurda sensazione di essere spettatori di una storia scolorita, così sbiadita che non è più possibile distinguerne le trame originarie. Case? Costruzioni per gli animali? Cos’è rimasto di Aradena, qui, se non muri di pietra vecchia? Non ci sono attrezzi da lavoro o cimeli di vite passate: restano solo tracce, una pressa per le olive, un cumulo di vecchi mobili e ferri arrugginiti, l’ombra di una scala che conduce ad una nuova porzione di cielo invece che ad una stanza. Aradena è uno di quei posti dove le storie vanno immaginate più che decifrate: il tempo e le intemperie della montagna hanno ripulito le tracce umane come fanno con i teschi di capra abbandonati nei fossi. Chi se n’è andato da Aradena forse s’è portato tutto con sé, o forse semplicemente ci sono esistenze che il tempo cancella più facilmente perché è più lieve il loro passaggio sulla terra: donne, uomini, pastori e contadini dalle storie minute, sussurri che si perdono nella piega della Storia più ampia.
Allora proviamo a immaginarle, queste storie. Smarriti in un susseguirsi di edifici sventrati – tutti uguali e tutti ugualmente muti – ci immaginiamo le donne vestite di scuro intente a preparare la sfakianopita – la tradizionale torta di formaggio cosparsa di miele di timo – e i pastori con il tipico sarìki nero a frange avvolto sulla testa, il volto solcato da rughe come spaccature nella terra sotto una barba rada, biancastra. Ci immaginiamo il profumo del pane e dell’agnello marinato nelle erbe di montagna, e quello dolciastro del formaggio caprino. Ci immaginiamo le storie interrotte, quelle spezzate e quelle semplicemente dimenticate. E prima di dirigerci verso la gola, nel silenzio di una mattina d’ottobre proviamo a custodire i bisbigli di quel tempo passato.
Erica Balduzzi

Il progetto Ascosi Lasciti nasce nel 2010, tra i primi in Italia a dedicarsi al tema dell’abbandono di infrastrutture, trattato in tutti gli aspetti. Si sviluppa grazie al lavoro di squadra di un team ramificato sul territorio, fino al 2020, anno in cui si fa associazione culturale, tra le più seguite sul web in Europa. Il collante di tutto? L’amore per l’urbex, la riscoperta di luoghi dimenticati.