Mi chiamo Valentino.
Il mio cognome? Non ridete: Rossi.
E no, non sono il Vip. Giorgio è il mio secondo nome. Non sono nemmeno motociclista. Come potrei? Ho 10 anni.
Non sono nemmeno un figlio illegittimo o il nipote. Non avrei ereditato nulla da lui: sono un tipo tranquillo e pacato, riflessivo e studioso. Sogno di fare il farmacista, dietro un banco senza rischi, mica il corridore su due ruote.
Ho già finito i compiti per l’estate, così mi godo il tempo libero. Dimenticavo: odio il caos. L’imprevedibilità. Specialmente del mare, e di ciò che vi sta sotto.
Amo la piscina.
Sono le 16:05. Mio padre mi ha appena lanciato più in alto del sole. Glie l’ho chiesto insistentemente. Lui mi ha semplicemente assecondato. L’indaco del cielo, sopra la mia testa si fa più luminoso. Le increspature azzurre, sotto di me, e le affollate cuffie blu e rosa si fanno sempre più piccole.
Prima avverto l’accelerazione, spaventosa. Poi la sensazione di continuare a salire, piano piano, ma senza arrestarmi. Poi la decelerazione esponenziale. Quasi come se fossi sospeso a mezz’aria, con la consapevolezza di non essere ancora nemmeno a metà percorso, prima del rapido schianto sullo specchio d’acqua. Ed è qui che inizio a dimenarmi come un gatto, con la vana speranza, sbattendo freneticamente le braccia a casaccio, di velocizzare il tragitto di ritorno.
Questa è la prima volta che capisco il significato di “vertigini”: più che voglia di volare, sono paura, terrore di cadere. Ho 10 anni, e so che tra altri 20 tutto sarà ancora nitido nella mia testa. Mi schianto di pieno petto. Dicono che niente come l’acqua spenga bene gli incendi, e allora perché la mia pancia brucia così?
Ho 31 anni. Il vento mi accarezza la faccia, sopra la mia Aprilia RS 125. La uso per andare sempre al mare. D’altronde, OGGI, odio la piscina. Amo le scogliere, anche se soffro di “fobia dell’altezza”. Quel ricordo, allo stabilimento dell’hotel, oggi, è ancora più nitido. Sarà stata la scarica di adrenalina, ma la sensazione è più viva dell’aria che mi sfreccia tra le gote.
Nulla è invecchiato. O quasi. Si, ora i peli sulla testa sono emigrati a sud del mio corpo. Si sa che nelle stagioni più fredde, tutte le forme di vita dotate di un qualche movimento si spostano verso il caldo.
Ogni volta che giungo alla spiaggia, parcheggio facilmente il mio mezzo, e poi vorrei subito tuffarmi dagli scogli. Ma dopo minuti, a volte ore, passate a fissare il vuoto, vince quello che chiamo benevolmente “istinto di sopravvivenza”. Fifa, l’avrei definita seccamente a 10 anni.
Ho un sogno. Anzi, più di un sogno. Un desiderio incombente e ossessivo. Qualcosa, nel mio spirito, vorrebbe riprovare quella sensazione, senza lasciarmi sopraffare dal panico. Chiudere gli occhi e godermi ogni singolo centesimo di secondo di quel tuffo, per poi agilmente racchiudermi e penetrare la tensione superficiale dell’acqua.
E’ necessario fare atterrare prima le punte dei piedi, poi il resto del corpo accuratamente racchiuso, per fendere più possibile il velo acquatico senza farsi male. L’ho studiato al corso di “Fisica applicata” prima di mollare definitivamente l’università per accettare quell’offerta di lavoro al box di Moto 3.
Con un nome così era impossibile non notare il mio curriculum. Mi scherniscono così i colleghi. Ci rido su. Da bambino questi paragoni erano all’ordine del giorno e mi davano il voltastomaco.
Più di un sogno. Ho un irrealizzabile desiderio: ripetere quel lancio che mi ha segnato inconsciamente da bimbo.
La verità, purtroppo, è che se lo facessi, l’esito sarebbe da codice rosso. Perchè? Quella piscina oggi è vuota, secca. Con sé, l’Hotel che ospitava il mini-parco acquatico.
La stessa piscina che, essendo fuori norma, portò ad un blitz dei carabinieri, durante una delle solite giornate tranquille in cui i bagnanti, come me, si divertivano a lanciarsi in acqua.
Era il 2007 e, durante il sopralluogo, la polizia trovò una sorpresa ancor più compromettente: 10 immigrati clandestini irregolari, tenuti nei sotterranei dell’edificio. Il risultato? Edificio chiuso, tenuto custodito per anni ed infine abbandonato.
Con esso, si è chiuso il flusso turistico di persone che si muovevano verso la zona. E i sogni di chi, come me, avrebbe voluto lanciare con maggiore premura il proprio figlio, insegnandogli la gioia di non aver paura del vuoto, ma di saperselo godere appieno. L’unica cosa capace di riempire questo vuoto apparentemente incolmabile, è scattare foto di ciò che resta.
Un giorno mostrerò queste foto a mio figlio, spiegandogli come di ogni nido non debba fare una prigione, ma solo un bellissimo trampolino di lancio.