Se paragoniamo il team di Ascosi Lasciti ad un bellissimo polipo gigante, sono sicuro di poter affermare che il gruppo appena formatosi “Urbex Roma” sia uno dei tentacoli più insidiosi e curiosi! Metafore ittiche a parte, la squadra si muove una fredda domenica mattina partendo dalla capitale. Obiettivo? Come sempre, esplorare “nuovi” edifici abbandonati.
All’appuntamento i componenti del team, il ragazzo che lavora al bar della fermata metro e un paio di ciclisti: le escursioni all’alba di domenica sono cose per pochi temerari!
La macchina rigorosamente a GPL per risparmiare prosegue imperterrita in autostrada con due destinazioni giornaliere: una tappa sicura e una molto meno certa. In questo articolo, per la gioia dei curiosi, tratteremo la seconda!
Ci ritroviamo a lasciare la vettura parcheggiata ai lati di una stradina sterrata che costeggia un grande campo. Un simpatico contadino alla guida di un trattore ci informa che ciò che stiamo cercando è abbastanza lontano ma che, con un po’ di pazienza ed una buona gamba, vi si può arrivare passando per un tratto di boscaglia. Ben contenti dell’informazione iniziamo a sentire più vicina la meta. Ciò che ci preoccupa è, invece, la stanchezza dovuta all’orario ormai tardo e alla sveglia mattutina che inizia a farsi sentire.
Decisi a non fermarci mai, il tentacolo si muove percorrendo una piccola strada fangosa delimitata da una fitta boscaglia e da sporadici canneti che delimitano delle pozze d’acqua. Finalmente, percorse svariate decine di metri, ecco apparire davanti ai nostri occhi, in lontananza, la punta arrugginita di un macchinario che sembra uscito da un set cinematografico. La mia mente lo colloca sotto la pioggia in una fredda e drammatica notte. Un mix visivamente allucinante che spazia da “Blade Runner” a “Il Corvo”. Invece nonostante le basse temperature, splende ancora un po’ di sole e questa enorme scavatrice abbandonata si fa sempre più vicina. Lo spettacolo si manifesta in tutto il suo splendore solo nel momento in cui riusciamo ad arrivare ai piedi della prima macchina arrugginita.
Non vi sono parole adatte per descrivere ciò che abbiamo di fronte. Un gigante di ferro si staglia inerme sul prato e attende il passare del tempo sfidando ogni intemperia possibile: dal sole al vento, dal gelo alla neve. Gli agenti atmosferici sembrano non scalfirlo minimamente.
Alla base del mostro di terra vi sono dei cingolati che sopportano sicuramente tonnellate e tonnellate di peso. Si diramano, poi, verso l’alto ma anche in orizzontale con cabine, ponti, cunicoli, braccia e ganci. Dalla parte opposta alla nostra, un’infernale ruota dentata capace di scavare buchi profondissimi.
Rimaniamo tutti a bocca aperta ad ammirare questo gigante dormiente per poi farci assalire da un unico pensiero: “dobbiamo arrivare in cima!”. E così sia. Perlustriamo il mostro prima a livello del terreno circumnavigandolo per cercare un punto di facile salita e per constatare, per la nostra sicurezza, che non vi siano parti traballanti o pericolanti.
Riusciamo scovare un piccolo ponte di ferro che serviva, in passato, per l’accesso agli operai. Questi si presenta chiuso da una catena e ad un metro da terra. Con dei balzi felini degni di Roberto Bolle eccoci finalmente sopra i cingolati, pronti a salire sempre di più.
Percorriamo il mostro in lungo e in largo. Esploriamo le ex cabine di manovra e tutti i pontili. La struttura è solida come non mai nonostante la ruggine abbia preso il sopravvento. Un po’ di panico ci coglie quando arriviamo all’estremità del ponte più lungo: ci troviamo in balìa del vento gelido che, data l’altezza, è sempre più forte. La sensazione è quella di barcollare ed effettivamente, le forti scariche di vento muovono le estremità meccaniche più esposte.
Armati di coraggio e di fasciacollo iniziamo la salita verso la cima. “Over the top” oserei dire. Procediamo lentamente, a piccoli passi, saldamente aggrappati ai pontili in ferro. Qualcuno di noi ha la malsana idea di guardare verso il basso. Piccolo ripensamento momentaneo? Falso allarme, il desiderio di conquistare il mostro di ferro ha la meglio.
Eccoci finalmente in cima. La temperatura sembra ancora più bassa e il vento ancora più forte. Piazziamo un cavalletto e ci facciamo un autoscatto quasi da alpinisti. Siamo venuti malissimo, non lo vedrete mai!
Da quell’altezza riusciamo a notare un altro piccolo mostro di ferro sotto di noi, a poca distanza da quello sul quale ci troviamo. Ne vediamo anche un altro, ma molto più lontano. Il panorama effettivamente da lassù non è per niente male: un piccolo laghetto e la natura circostante ci fanno dimenticare per un attimo il traffico ed il cemento della capitale.
Il sole inizia a calare e ci dirigiamo, quindi, verso il basso con l’intento di esplorare ancora la zona. A pochi passi ecco l’altra escavatrice. Decisamente più piccola, sembra la figlia di quella mostruosa da cui proveniamo. Insomma, rimaniamo poco soddisfatti. Cerchiamo e troviamo dopo un altro bel po’ di cammino anche l’altra macchina che vedevamo in lontananza ma dato l’orario e la recinzione rinforzata decidiamo di ammirarla e basta. In fondo, il pezzo forte ce lo siamo portati a casa.
Sui cenni storici abbiamo qualcosa da dire a riguardo. Nel 1800 circa, alcune imprese della zona decidono di sfruttare dei giacimenti naturali formatisi nei secoli per iniziare a produrre acciaio. Più recentemente, all’incirca nel dopoguerra, nascono svariate centrali a pochi chilometri da quest’area. Una nota azienda tedesca, quindi, progetta e fa costruire degli enormi macchinari in ferro per l’estrazione dei minerali necessari all’alimentazione delle stesse centrali. In realtà le macchine escavatrici servivano anche per eliminare la parte di terreno inutile della cava, quella che rimaneva al di sopra dei minerali ricercati. Gli enormi crateri che si formavano durante questa operazione venivano colmati con la terra tolta da altre parti. Indovinate un po’: esaurite le risorse della cava e dell’intera area i macchinari vengono abbandonati a loro stessi.
Il gruppo Urbex Roma si avvia alla macchina e, con la luce del tramonto all’orizzonte, abbandona dietro di sé l’enorme mostro di ferro e i due figlioletti più piccoli. Riflettiamo tra di noi sulla maestosità di quelle opere ingegneristiche e ci chiediamo (totalmente ignoranti in materia) come si possano progettare e costruire macchine del genere, per poi lasciarle definitivamente alla mercé del tempo.
Le metafore ittiche tornano nella mia mente e, a pensarci bene, quelle macchine escavatrici sono un po’ degli enormi poliponi anche loro. Quei tentacoli di ferro in fondo ci hanno regalato un bel po’ di emozioni e qualche bel brivido di avventura.
Sarà scontato ma per cena, tornati a casa, zuppa di pesce.

Commediografo, teatrante, comico ed esploratore urbano. Come si conciliano queste personalità? Fa parte del carattere di Matteo. Autoironico ma determinato.
Amministratore del profilo Instagram di Ascosi Lasciti e autore di articoli, principalmente nel Lazio.