Dodici anni fa non sapevo cosa fosse l’urbex. O meglio: ignoravo l’esistenza di una codificazione condivisa e di una subcultura tanto stratificata, tali da attribuire un nome e un’identità alla pratica delle esplorazioni di spazi (extra)urbani caduti in disuso e in rovina architettonica. Probabilmente, dodici anni fa il livello di definizione di queste pratiche era meno netto rispetto ad oggi, fatto sta che nel 2007 la mia visita a Craco fu poco più che una gita con tre amici, innescata dalla curiosità innata che mi muove verso i luoghi abbandonati, e, in particolare in quegli anni, mi spingeva alla ricerca di paesi fantasma.
Da allora le cose sono cambiate radicalmente. Nel 2010 Craco Vecchia è entrata nella lista dei monumenti da porre sotto tutela, redatta dalla World Monuments Fund, e ad oggi la località figura su Google Maps come “Parco museale scenografico di Craco”, una denominazione che testimonia la progressiva trasformazione di un desolato borgo-rudere in un’attrazione turistica perfettamente regolata: la visita impone una guida ufficiale, la firma di una liberatoria e un elmetto obbligatorio – una serie di norme e paletti che tradiscono la filosofia degli esploratori urbani e appiattiscono le fantasie di scoperta e avventura. Attualmente, d’altronde, non risultano significative opere di restauro o conservazione di questo bene architettonico e storico.
La fama e la conseguente musealizzazione di Craco non stupiscono, se si considera che il profilo del borgo antico si è prestato come sfondo per diverse opere cinematografiche (nonché per uno spot della Pepsi destinato al Giappone). Dagli anni ’50 ad oggi, si contano una quindicina di film che annoverano scene girate in questo paese fantasma arso dal sole e piantato su un’altura, entro la cornice geologica dei calanchi, formazioni rocciose tipiche di un territorio che assomiglia ad un paesaggio marziano. Su tutti, si ricordano “Cristo si è fermato ad Eboli” (1979) di Francesco Rosi e “La passione di Cristo” (2004) di Mel Gibson.
Quando ho messo piede a Craco, tuttavia, non disponevo di molte informazioni, né ho potuto usufruire di una visita guidata che illustrasse nomi, ubicazioni e caratteristiche della torre normanna, dell’antica Chiesa Madre e dei quattro palazzi nobiliari ancora riconoscibili in mezzo ai ruderi. La mia esplorazione è dunque l’esito di un giro casuale e istintivo, così come le immagini raccolte non hanno particolari spunti programmatici né cura tecnica, essendo il prodotto di una macchinetta fotografica tascabile per profani.
Già allora, invece, conoscevo almeno per sommi capi la parabola che descrive nascita, vita e morte di Craco: la storia del luogo risale addirittura all’VIII secolo a. C. (primo insediamento), passa per un periodo bizantino (X secolo d. C.), ma urbanisticamente va collocata nel XII secolo d. C., quando i Normanni plasmarono la planimetria del borgo antico tuttora riconoscibile. I secoli restanti sono ben documentati sulle enciclopedie online, fino al triste epilogo dovuto a una frana del 1963, causata non solo dal terreno argilloso ma anche dalla presenza di una rete idrica e fognaria costruita, forse, maldestramente nel sottosuolo.
Più di duemila abitanti furono evacuati. L’alluvione del 1972 e il terremoto del 1980 non favorirono di certo il ripopolamento di Craco, che ormai da più di 50 anni è un fantasma solitario nel mezzo di un paesaggio unico e impressionante.

Derive Suburbane è un progetto di esplorazione degli spazi (extra)urbani dismessi e dell’architettura fantasma, interamente dedicato alla Campania: paesi abbandonati, edifici civili e sacri, archeologia monumentale e industriale, infrastrutture e complessi edilizi.