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DEPOSITI dismessi e VEICOLI abbandonatiPIEMONTE urbex

Auto Nuova

Articolo di Ottobre 27, 2019Dicembre 1st, 2019Nessun commento

“Io ho fatto novecentosettantamila dollari l’anno scorso. Tu quanto hai fatto? Vedi amico, ecco chi sono io. E tu non sei niente. Sei una brava persona? Non me ne frega un cazzo. Un bravo padre? Vaffanculo a casa tua a giocare coi ragazzini!” Americani.

Se pensiamo che l’esplorazione urbana possa riguardare solo categorie di edifici storici, ci sbagliamo di grosso.
Questa ambigua ed estrema branca della fotografia, che coltiviamo con dedizione e sacrificio, non si interessa soltanto a storie di vecchie fabbriche o palazzi antichi mai restaurati. Non deve, quindi, essere presa in considerazione solo per parallelismi con l’oblio identitario, la noncuranza per le proprie origini e la perdita dei valori lasciati dai nostri avi.
L’abbandono edilizio riguarda anche lo spreco delle risorse e la speculazione territoriale. Storie di fallimenti e sofferenze umane. Esso rappresenta l’impotenza dell’uomo che si costruisce muri di bugie su pilastri di vanità per tentare di proteggersi, non soltanto dal tempo, ma più in generale dal caos.
Ciò che ci insegnano queste storie è come ogni impero, anche il più apparentemente indissolubile, sia solo un’illusione temporanea.
Ne è un lampante esempio questa enorme concessionaria, famosa nella zona e chiusa dai primi del nuovo millennio.

Jaguar, per lo più, e altri modelli di auto, orientali. Suzuki e Toyota.
Tutti prototipi di auto particolarmente ambite, beni di lusso. Simboli di consumismo, di desideri materiali. Tanto da esserne attratti anche noi, vedendole così, vecchie e dimenticate.
All’ingresso, ci si para subito un blocco chiuso, colmo di “resti di fabbrica” lasciati a prendere la polvere. Tutto chiuso. Ci vediamo bene dal provare a creare un accesso, perché sarebbe poi ingresso facile per futuri sciacalli, nonché reato penale per noi.
L’edificio principale invece è totalmente aperto, vandalizzato, coperto di calcinacci, schegge, fuliggine. La luce filtra debolmente dai vetri opachi, per poi sparire all’interno dei magazzini.

La struttura è sviluppata su un unico blocco. Tuttavia è suddivisa, come ogni negozio di rivenditori automobilistici, in più parti funzionali:
– lo spazio comune, dove sono ancora esposti quelli che erano “gli ultimi arrivi”. Incredibilmente, alcuni veicoli sono pressoché intatti.
– il già citato magazzino, dove si susseguono labirintici scaffali di pezzi di ricambio, accuratamente impilati e numerati. Ci sono alcuni spazi vuoti. Non ci è dato sapere se siano stati derubati o sgomberati al momenti di chiusura dell’attività.
– i gazebo degli uffici, dove il broker portava il cliente a mostrare i modelli e far firmare l’atto di vendita. Questi forse sono gli spazi più suggestivi, dove regnavano ordine e pomposità: il cliente, entrando qui, doveva avvertire una forte sensazione di potere, per convincersi a comprare.

“Servono palle d’acciaio per vendere”. Questo l’unico slogan.
La parola d’ordine di aziende come questa è apparire, “mostrare i muscoli” e quindi portare il potenziale acquirente a sentirsi parte integrante di un impero. Lo dimostra quell’aereo militare in esposizione nel giardino, oggi coperto dai rovi.
Non importa se il delirio di onnipotenza cesserà ad un mese dalla vendita, quando la prima spia di segnalazione si accenderà e i pentimenti dell’automobilista sostituiranno quella sensazione. Non importa se dopo alcuni anni, il desiderio maniacale tornerà ad essere una necessità irrefrenabile. E importa ancora meno se, proprio allora,  tutti i problemi di obsolescenza meccanica (programmata o non) convinceranno definitivamente il proprietario dell’auto a indebitarsi per altri cinque anni di lavoro.
L’importante è vendere.
“E sai cosa ci farò io, broker, con quella vasca di soldi?
Ci comprerò un orologio, un telefono e un paio di occhiali, della miglior marca, per distinguermi dalla massa.
E un auto nuova. Ma non una qualsiasi. La più bella. D’altronde chi più spende, meno spende.
Infatti non durerà poco come tutte le altre.”
Ne durerà sei.
Forse.
Per come la terrà, anche quattro.
Ma si stancherà presto.
D’altronde, i tempi si dilatano per chi ha queste possibilità.
Fra tre, ne arriverà una nuova.

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