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Qui sulla collina saprai quanto vale un ora, quanto pesa la strada e sottile è una frontiera”

 

Cito a memoria un pezzo di una ballata di Sclavi letta una decina di anni fa, pertanto se troverete l’originale vi renderete conto che le differenze sono abissali.  Il tempo ha modificato il mio ricordo.
Il tempo che passando cura le ferite, quello che quando è finito diventa prezioso, mentre abitualmente vale talmente poco che si inventa di tutto per sprecarlo… il termine passatempo vi dice nulla?
Stavolta parleremo di tempo e di frontiere, queste ultime le analizzeremo nella loro accezione più metaforica di barriera o limite invalicabile. Per affrontare questi temi ci recheremo in un luogo dove la loro importanza è davvero cruciale.
Siete mai stati in un carcere? Oggi ne visiteremo uno abbandonato.
Avete mai immaginato il mondo visto da dietro le sbarre? Non cambia nulla, se non che si ha una visione più limitata, frammentata e monotona del paesaggio.   Il mondo fuori non cambia, cambia l’osservatore dentro, ed il valore che si dà a ciò che si guarda.

 

Si sa, noi uomini diamo importanza alle cose solo quando le stiamo per perdere o dopo che le abbiamo perse.
Il mondo, che ci passa davanti agli occhi tutti i giorni guardato ma non visto, non vale nulla per chi sta fuori.   Diventa prezioso per chi sta dentro.
Ed ecco che il confine, la barriera, diventa opprimente ed un muro diventa largo come una montagna.
Perché alla fin fine quando qualche cosa lo si è perso, lo si torna ad apprezzare… La frontiera diventa, dunque, il limite alla nostra libertà di movimento. Il mondo si riduce a pochi spazi che si esprimono in una cella ed in qualche cortile comune del carcere. L’esterno diventa una entità distante, un luogo agognato.
E con il tempo come la mettiamo? Se proviamo a metterci nei panni di un carcerato medio possiamo ipotizzare un rapporto con il tempo estremamente complesso e tormentato.
Direi che il tempo passato comporti rimorsi e pentimenti. Certamente pochi rifarebbero quello che li ha portati “al fresco”, alcuni per un effettivo pentimento, altri semplicemente per evitare la punizione. Il fantasma del tempo passato sarebbe una specie di cadavere che ogni notte ci guarda con la sua bocca di morto e viene a tiraci i piedi nel letto; niente di bello insomma.
Il presente possiamo immaginarlo come un immenso vuoto.
E’ vero che nelle carceri moderne ci sono molte possibilità di “ammazzare il tempo” ma è altrettanto vero che il tempo vale solo per chi lo può spendere in modo libero. Il “dover trovare” un modo per ammazzarlo, lo svaluta, lo depaupera del suo valore.
Il fantasma del presente allora potrei descriverlo come un fantasma che ti inghiotte.  E ti ritrovi in un mondo totalmente bianco, vuoto e statico. Il nulla.
Resta solo il futuro come ultima speranza. Per molti è l’attesa, la luce in fondo al tunnel, per altri invece è ancora “il vuoto” o la rassegnazione.  Ed allora questo spettro lo dipingiamo come Giano Bifronte ed avrà le stesse caratteristiche dell’antico dio romano.

 

Giano è una divinità che con il carcere, così come lo sto raccontando, “calza a pennello”.
Per i Romani era bifronte, perché era custode del passato e del futuro.
Probabilmente queste due categorie temporali sono le più incisive nel destino di un carcerato: nel passato c’è il germe della pena e, nel futuro, forse ci sarà la sua cancellazione.
Giano è anche il dio della soglia, o della porta e come tale vede sia all’interno che all’esterno. Giano è dunque il guardiano della frontiera e la sua duplice vista è metafora del carcerato, che, chiuso all’interno, guarda con gli occhi della mente e con desiderio l’esterno.
Il tempo è dunque fonte di sentimenti ed emozioni contrastanti.  Si passa dal rimorso al pentimento, dal rancore alla rabbia per il passato e alla speranza per il futuro, tenendo nel mezzo la noia, il vuoto o la voglia di riscatto del presente. Il carcere che ho visitato sorge effettivamente su una collina.  E mi torna in mente il vago ricordo di quella ballata di Sclavi… abbiamo visto quanto vale un’ora, ed appurato che non tutte le frontiere sono propriamente “sottili”.
Ci manca solo di sapere quanto pesa la strada. Ma se il tempo vale in base alla reale possibilità che abbiamo di decidere il come utilizzarlo, se lo spessore di una frontiera può essere visto come un descrittore della possibilità di muoversi nello spazio in libertà, come possiamo valutare la strada?
Certamente potremmo ipotizzare di vedere la strada nel modo più classico possibile, come metafora del viaggio, reale o figurato, non fa differenza.
Ma l’esperienza del carcere con la sua stasi non si sposa bene al dinamismo del viaggio, a meno che non ci si muova solo sul piano figurato. Se allarghiamo il concetto di strada, dal viaggio ci possiamo spostare al movimento, che è l’opposto della stasi. Ciò che si muove cambia, allora concludiamo che le strada è il cambiamento. L’esperienza della prigionia porta cambiamento nonostante sia una esperienza fisicamente statica. Il carcere è una strada verso una forma di cambiamento. Il peso di questo cambiamento è influenzato da diversi fattori, descrivere il tutto sarebbe troppo complicato, abbiamo infatti cambiamenti in bene o in peggio, piccoli o grandi, temporanei o definitivi… pensate a tutte le storie che avete letto legate al carcere o ai suoi abitanti e vi renderete conto di quanto pesante sia questa strada.
Tutte le esperienze forti cambiano coloro che le vivono e, certamente, la reclusione è una di queste.
Suggerivo prima di pensare a qualche film o romanzo ambientato in un carcere, vi lascio con una frase scritta da un personaggio che il cambiamento lo ha vissuto sulla sua pelle.
Sto parlando del personaggio di un romanzo, del quale è stato tratto anche un bellissimo film. Ecco cosa scrisse il vostro uomo, penso che possiate riconoscere da queste semplicissime parole il titolo del libro o almeno il film, e capirete di conseguenza il significato di questa citazione:  BROOKS WAS HERE.

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L’obiettivo dell’esplorazione è toccare il fondo e la cima, toccare… per vedere se la porta si apre.

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