Sono nel cuore di un paese in provincia di Salerno e da una statale mi è possibile scorgere un maestoso quanto inquietante edificio grigiastro indiscutibilmente abbandonato, che giace lì, sul fianco di una collinetta, lontano e solitario rispetto al centro.
Ad un occhio disinteressato non rappresenta altro che una carcassa in pietra che deturpa il paesaggio, ma per un esploratore come me è oro.
Decido di deviare il mio percorso e di provare a raggiungerla non facendo i conti, però, con strade strette e sterrate e percorsi impervi che non mi rendono naturalmente semplice la cosa. In ogni caso la mia avventura è appena cominciata e non mi tiro indietro, pertanto proseguo.
Giunta finalmente alla meta, ad attendermi, un enorme cancello arrugginito totalmente spalancato, che mi invita ad entrare.
Un dettaglio forse suggerisce qualcosa sulle origini della struttura che andrò a perlustrare: una targa affissa con la scritta ”Villa Elena”. Poco distante ne spunta un’altra da un intreccio di rovi che suggerisce qualcosa: ”Casa di cura”.
Non è chiaro se ”Villa Elena” sia il nome del centro riabilitativo o se sia il nome di una vecchia villa poi ”sfruttata” come centro di accoglienza per anziani (mi pongo il dubbio in quanto questo è stato il destino di molte strutture in seguito riqualificate divenendo ospedali, università o, come in questo caso, centri di cura).
Tutte ipotesi, comunque. Non si sa molto della sua storia. Anzi, proprio nulla. Nemmeno il periodo approssimativo di costruzione. Nessun almanacco, nessuna testimonianza.
Intrapreso il lungo vialone, mi dirigo verso l’edificio: quello che mi trovo davanti è un palazzone grezzo il cui aspetto è reso ancora più spettrale dalla fitta vegetazione, dal silenzio assordante e da un senso di isolamento che mette i brividi.
La mia esplorazione ha inizio intrufolandomi nella zona caldaie, tanto ampia quanto rovinosamente conservata; da lì poi passo direttamente al primo dei 3 piani di cui la villa dispone. I primi due offrono una distesa di camere e zone bagno; a cingerle, dal lato del belvedere, due enormi balconi; l’ultimo piano, invece, coincide con un immenso terrazzo che affaccia sulla vallata.
La cosa che più colpisce è la disposizione dei vari ambienti: alcune camere sono ampie e luminose, altre minuscole e tetre, ed affacciano su cortili interni in cui il sole non batte mai.
La presenza di cunicoli, angoli angusti e zone buie ed isolate contribuiscono a conferire un’atmosfera asfissiante, al limite della claustrofobia.
L’aria che si respira tra i lunghi corridoi è pesante e ciò non è riconducibile alle polveri (caratteristiche dei luoghi abbandonati) ma più a un fattore umano.
Presa dalla consapevolezza che fosse stata una casa di cura, tra un percorso e un altro, mi lascio pervadere la mente da tutto ciò che potrebbe essere accaduto tra quelle mura, oggi squarciate: quante realtà, quante speranze, quanti ricordi, quante malinconie e quanta sofferenza!
A tratti, mi sembra di percepirla, di sentirla tangibile. Lascio che le foto parlino, e che vi raccontino il resto della mia visita.
L’obiettivo dell’esplorazione è toccare il fondo e la cima, toccare… per vedere se la porta si apre.
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Teresa Fini entra nel mondo urbex circa dieci anni fa, girando l’Europa, ma consolida il suo percorso esplorativo negli ultimi anni, compiendo decine e decine di esplorazioni.
La sua passione viene, negli anni, alimentata anche dalle origini della sua città, Napoli, pregna di storia, cultura, esoterismo e mistero, che lei ama portare alla luce attraverso ciò che più le piace fare: scoprire, fotografare, scrivere, appassionare.