“Le balene sono solo un altro pesce per me, un’abbondante risorsa marina, nient’altro. (…) Se cacciassimo balene per un’intera estate senza ammazzarne alcuna incinta, ci sarebbe qualcosa di tremendamente sbagliato nell’Oceano.” Non sono frasi del mio repertorio ovviamente. E nemmeno le ciniche esclamazioni da antagonista di un film horror. Sono le dichiarazioni di un tal Kristján Loftsson. Segnatevi questo nome.
Di chi stiamo parlando? Altri non è che il personaggio cardine del nostro prossimo racconto. Perché ogni luogo abbandonato che si rispetti porta con sé storie avvincenti, racconti di liti e scontri, ma soprattutto l’ombra di personaggi incredibilmente eccentrici. Esattamente come il “nostro” Kristjan. Ma prima ancora di presentarvi la figura di questo magnate islandese, vogliamo parlarvi più in generale della caccia alle balene.
Pratica sempre meno diffusa. Mira ormai a soddisfare la sola curiosità dei turisti, non serve più a riempire le pance dei locali. La caccia alle balene nell’Isola “del ghiaccio e del fuoco” iniziò nel 12° secolo. E’ oggi ancora permessa, seppure in forma notevolmente ridotta a causa della moratoria della Commissione baleniera internazionale del 1986. Il governo locale ha spesso supportato indirettamente l’attività facendone riprendere regolarmente il corso, forzando la mano con decreti statali. Tutto questo è accaduto ignorando le svariate denunce degli attivisti internazionali, mirate a far luce sulle pratiche irregolari perpetuate dalla “Hvalur hf.”, l’azienda di baleniere più grande del Paese, che appartiene proprio a Loftsson.

Soggetto: Kristjàn Loftsson. Foto: Antone Brink. Fonte: Iceland Magazine
Ma da dove nasce la caccia alle balene? Esisteva già nell’Atlantico settentrionale, nel 1100, perpetuata con metodi assai rudimentali. Chiariamo: le più moderne pratiche prevedono oggi che le baleniere da cattura, dopo l’avvistamento dei cetacei, si impegnino nell’inseguimento; un cannone da 90 mm con un arpione a punta di granata viene poi sparato contro il bersaglio; la corda collegata all’uncino serve ad evitare che la balena si perda, assicurandola al lato della nave arpionatrice e successivamente rimorchiandola a terra per la macellazione.
Ecco, così si caccia oggi. Agli esordi invece i cacciatori colpivano una balena tramite una lancia marcata, con l’intento di localizzare in seguito la carcassa spiaggiata e rivendicarne una quota.
Era pratica comune nell’Isola consumare carne di balene spiaggiate. I marinai dovevano dimostrare che l’animale fosse morto proprio a causa loro, ed usavano per questo lance colorate.
E se già state pensando a quanto dura dovesse essere la vita da “lupi di mare”, non avete messo in conto che l’Islanda offre condizioni metereologiche non certamente favorevoli: ogni anno, centinaia di marinai perdevano la vita.
Al pericolo di morte in mare si aggiungeva il malcontento dei pescatori di sardine, che traevano solo svantaggi dalla caccia alle balene, tanto che alcuni edifici adibiti alla lavorazione delle sardine furono chiusi e abbandonati. Il tutto si unì alle leggi che imponevano all’Isola di non esportare più carne di cetaceo all’estero.
Ecco spiegato il declino del commercio di balene.
Nonostante una campagna nazionale per incoraggiare gli islandesi a consumare più carne di balena, la gran parte della fornitura, bloccato l’export, fu utilizzata come mangime negli allevamenti di animali da pelliccia o finì avariata nei magazzini. La soluzione parziale fu quella di infrangere nuovamente le direttiva internazionali. Così, anziché consumarla tutta in casa, l’Islanda ha esportato carne di balena fino al 77% in Giappone. E il signor Loftsson, in tutto questo, ha continuato la sua attività senza ripercussioni finanziarie, nonostante la crisi del settore.
Torniamo proprio a lui: Kristjàn Loftsson. La sua attuale azienda fu fondata dal padre nel 1948. Kristian già all’età di tredici anni, dimostrava grandi doti, partecipando all’attività di famiglia nella caccia come scout sulla barca paterna. Ben presto divenne il CEO della Hvalur hf e ne portò gli utili a crescere esponenzialmente. Ma come mai oggi la sua reputazione è così compromessa agli occhi dell’opinione pubblica? Riassumiamo la risposta in tre punti:
1) Ha negli anni fatto pressione sui governi più liberali affinché la caccia alle balene non venisse mai troppo danneggiata.
2) Ha costantemente violato le normative, senza che nessuno realmente intervenisse a tutela degli animali. Sono stati documentati metodi di pesca illegali e uccisioni di specie ittiche protette. (Celebre la foto in posa dei suoi dipendenti su una carcassa di balenottera azzurra, poi macellata assieme alle altre per renderne irriconoscibile l’origine).
3) Ha sempre trattato contestatori e competitors come avversari da eliminare senza scrupoli. Nel 1978, ad esempio, quando Greenpeace tentò di interferire con la caccia, le baleniere, su suo comando, spararono arpioni sui manifestanti.

Soggetto: cattura della rara Blue Whale. Foto: Hard to Port. Fonte: Iceland Magazine.
Ad ogni azione, corrisponde una reazione, uguale o contraria. Greenpeace e altre organizzazioni aumentarono il numero di manifestazioni ed intromissioni durante le battute di pesca.
Ma il sabotaggio degli attivisti più grave non fu attuato da Greenpeace. Parliamo dell’attacco più grave fatto della nostra epoca, da parte degli attivisti. Eh no, non solo a livello islandese ma addirittura mondiale. E qui si concentra la nostra storia.
Oltre al solito Loftsson, parte lesa nella vicenda, i protagonisti principali della storia furono due membri della allora neonata organizzazione “Sea Shepherd”, Rodney Coronado e David Howitt. Il “casus belli”? Una delle tante nefandezze del governo pseudo-liberale islandese che, per aggirare un divieto internazionale sulla caccia alle balene, decise di spacciare le azioni della ditta di Loftsson come “pratiche per condurre ricerche scientifiche”. La classica goccia che ha fatto traboccare il vaso.
La strategia. Fingendosi immigrati alla ricerca di lavoro, i due attivisti si trasferirono nel 1986 integrandosi rapidamente nel tessuto sociale dell’Isola. In breve furono assunti a lavorare per il porto e così, la mattina del 6 novembre dello stesso anno, sabotarono un’intera stazione navale, distruggendo macchinari e computer, manomettendo i congelatori per le scorte e addirittura affondando due navi baleniere della Hvalur hf. Sbloccando le prese d’ acqua grezza dei motori, affondarono due delle quattro imbarcazioni di Loftsson: la Hvalur (dall’islandese “hval”, letteralmente “balena”) numero 6 e numero 7. Le valvole di raffreddamento dell’acqua salata nella sala macchine furono aperte intorno alle 5:00 del mattino, causando l’allagamento e l’affondamento dei mezzi nel giro di trenta minuti. La terza delle quattro baleniere, la Hvalur 8, non fu attaccata perché sorvegliata da una sentinella, mentre la quarta giaceva al sicuro nel bacino di carenaggio.
Nessuno rimase ferito, ma la vicenda divenne subito un caso internazionale. L’attacco aveva causato 2 milioni di dollari di danni alle navi, altri 2 agli impianti di lavorazione e ben 4 milioni di carne di balena scongelata.
Gli autori riuscirono a fuggire subito dal luogo del crimine tramite un volo per il Lussemburgo. Ironia del destino, nonostante le repentine denunce telefoniche dei portuali, la polizia non arrivò prima delle 7:00. E i due fuggiaschi, fermati dalla polizia doganale per un normale controllo di routine, non furono identificati, potendo così scappare indisturbati.
I media internazionali impazzirono, l’opinione pubblica si spaccò. C’era chi la considerava un’operazione terroristica e chi la osannava come unica e concreta azione di tutela ambientale. Persino la più celebre GreenPeace si schierò inaspettatamente tra i primi, definendo come “troppo duro e pericoloso” questo maxi-sabotaggio. Coronado e Howitt ammisero le loro responsabilità, ma rifiutarono l’etichetta di “terroristi” perché, dissero, “ci siamo sempre preoccupati che nessuno si fosse ferito durante l’operazione”. Possibile o no, una cosa era certa: l’organizzazione Sea Shepherd divenne famosa a livello globale aumentando a dismisura il numero dei suoi tesserati.
E mentre, col passare degli anni, i reati dei due caddero in prescrizione, Watson, leader all’associazione, inaspettatamente si recò in Islanda nel 1988 per fare i conti con le proprie responsabilità e, in un qualche modo, sfidando apertamente il governo islandese.
Fu detenuto per 24 ore prima di essere espulso come “persona non gradita al Paese”.
Fine del conflitto legale. Non della battaglia per i diritti ambientali.
La guerra dei mari era appena iniziata. Sea Shepherd aveva inesorabilmente alzato l’asticella del contrasto alla caccia delle baleniere.
E tutte le altre organizzazioni umanitarie scelsero di (o dovettero) starle dietro. Nel 1987, Greenpeace portò al sequestro di 170 tonnellate di carne di balena islandese dirette in Giappone. L’incursione è stata ripetuta l’anno seguente coinvolgendo una carico da 197 tonnellate.
Due anni dopo, i boicottaggi del pesce islandese pianificati da più organizzazioni contro la caccia ai cetacei iniziarono a mettere a dura prova persino l’economia islandese. I principali acquirenti, come catene di supermercati e ristoranti, tra cui il colosso Burger King, boicottarono il mercato ittico islandese, con grossi danni economici.
Sea Shepherd ha pagato, e tutt’ora paga, qualsiasi privato cittadino avesse voglia e coraggio di documentare le nefandezza perpetrate dalle baleniere della Hvalur hf. L’ultimo stop, avvenuto nel 2019 per le restrizioni da coronavirus, ha portato una tregua a questa situazione. Il bracconaggio è fermo e non è ancora ripartito. Non è dunque chiaro se la caccia commerciale alle balene riprenderà a breve.
Restano ancora oggi i segni di questa guerra: le due baleniere, 6 e 7. Poche settimane dopo il loro affondamento, le loro 430 tonnellate furono recuperate dal fondale, ma i danni ormai risultavano pressoché irreversibili e così le loro carcasse rimasero abbandonate nel porto.
Giacciono lì, marcite e pericolanti, ma sorvegliate e sigillate per evitare che vandali, sciacalli o semplici curiosi incoscienti possano introdurvisi e ferirsi, oppure depredare. In esclusiva, vi mostriamo le foto, sperando che la guerra che ha generato tali mostri divenga nei prossimi anni solo un lontano ricordo.
Se queste baleniere abbandonate hanno stuzzicato la tua curiosità, ecco una lista di altri aerei,navi e mezzi abbandonati oppure i relitti sommersi. Altrimenti perché non esplorare virtualmente i luoghi abbandonati dell’Islanda?
L’obiettivo dell’esplorazione è toccare il fondo e la cima, toccare… per vedere se la porta si apre.
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Co-fondatore del progetto Ascosi Lasciti e dell’omonima associazione culturale. Laureato all’Università di Genova e specializzato a quella di Verona e Pisa. Appassionato di fotografia e innamorato della scrittura, in queste due vesti ha organizzato mostre, curato articoli di quotidiani e pubblicato libri a tema Urbex.