Ci troviamo in una nota provincia partenopea e nel cuore di una stradina secondaria si erge un ex carcere penitenziario perfettamente conservato.
L’esplorazione comincia costeggiando una guardiola che preannuncia l’ingresso principale ad una centralina in cui sono ben custoditi importanti documentazioni, riviste, mazzi di chiavi ed un calendario che segna l’anno della dipartita del luogo, il 2002.
Anche negli uffici delle guardie carcerarie, a cui si arriva poco dopo, ci sono tracce del passato: armadietti, scrivanie, timbri, fascicoli, elenchi delle armi depositate o da depositare, ordini per la mensa ed atti giudiziari e subito fuori, accatastati, pile di materassi, sedie, medicine, scarpe, stoviglie e divise da lavoro nei pressi delle cucine.
Questa struttura cementata è suddivisa in tre grandi blocchi, due maschili e uno femminile.
Proseguendo tra i corridoi si giunge nell’anticamera del primo dei due reparti maschili e sulle cui pareti troviamo ”appese” le speranze dei figli dei condannati, che attendevano la fine della pena e la redenzione dei loro papà. Data la giusta importanza ad un mucchio di cianfrusaglie giudiziarie sparse un po’ qua e un po’ la, ci si addentra poi nel lungo corridoio che ospita il primo ed il secondo nucleo di celle.
Queste, disposte su entrambi i lati, presentano spazi angusti e veramente asfissianti e le pareti bianche le rendono più gelide di quanto già non lo siano. Ognuna di queste suggerisce le storie di chi lì ci ha vissuto: spugne, saponette, prodotti per la cura personale, adesivi dei più sognatori di idoli e donne prorompenti e anche un paio di scarpe incastrate tra le sbarre, come a voler concedere loro un ultimo raggio di sole, poco prima di tirarle dentro.
Questa prima parte del viaggio all’interno del carcere abbandonato prosegue nel parlatorio (in cui, per circa un decennio, si sono incontrati onesti e corrotti) per poi concludersi con una doverosa ”ora d’aria” nell’ampio cortile ad esso annesso, adibito a campetto di calcio e munito di bagni turchi, un lavabo e telecamere di sorveglianza; inghiottito dalle alte mura, tutto ha fatto fuorchè conferire un senso di libertà.
Per raggiungere il blocco femminile si torna all’ingresso principale e si costeggia l’altissimo muro che separa la struttura dal centro cittadino: da qui si scorge tra la sterpaglie e rovi, l’unico varco che conduca all’interno.
Questa fase esplorativa prende forma con un’ampia zona ”arredata” da una guardiola con un banco frigo, tele dipinte e, poco distante, da una montagna di addobbi natalizi, un po’ a volerlo rendere più dolce e colorato quello spazio in cui mamme e figli finalmente si ricongiungevano.
Una cabina telefonica a muro preannuncia l’ingresso alle celle.
Quelle delle signore sono più pulite e ”sacre” come testimoniano rosari, altarini, adesivi di santi e sante e le pagelline di qualche caro estinto, oggetti semplici ma con cui, molto probabilmente, si facevano forza e negli spazi comuni, tappeti di libri ovunque, con cui si tenevano compagnia: romanzi, classici, storici e pure qualche libro ”di chiesa”, utile per mantenere viva la fede, o forse per ritrovarla.
Realizzato agli inizi degli anni novanta con la funzione di carcere mandamentale, divenne in seguito carcere giudiziario e fu la casa dei condannati in attesa di giudizio e di quelli le cui pene non superavano i due o tre anni di reclusione.
Se questo carcere ha stuzzicato la tua curiosità, ecco una lista di carceri abbandonate. Altrimenti perché non esplorare virtualmente i luoghi abbandonati della Campania?
L’obiettivo dell’esplorazione è toccare il fondo e la cima, toccare… per vedere se la porta si apre.
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Teresa Fini entra nel mondo urbex circa dieci anni fa, girando l’Europa, ma consolida il suo percorso esplorativo negli ultimi anni, compiendo decine e decine di esplorazioni.
La sua passione viene, negli anni, alimentata anche dalle origini della sua città, Napoli, pregna di storia, cultura, esoterismo e mistero, che lei ama portare alla luce attraverso ciò che più le piace fare: scoprire, fotografare, scrivere, appassionare.