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Questa carcassa d’acciaio riposa silenziosa ai piedi del Vesuvio ed è completamente immersa (anzi, sommersa) dalla fitta vegetazione.

Giunti a piedi sul posto (l’auto l’abbiamo lasciata a qualche chilometro) ad attenderci c’è un enorme squarcio nella roccia, profondo metri e metri e che circonda tre quarti dell’area. Una cava da cui si lavoravano i materiali lavici, con un sistema di frantumazione e recupero.

Sono ancora ben conservati gli ingranaggi, perfettamente visibili e davvero enormi se li osservi da vicino, gli imbuti, dai quali scendeva il materiale pronto per caricare le cisterne che, da sotto, attendevano; le scale per raggiungere la parte più alta del frantoio, arrugginite ma ancora praticabili, alcuni macchinari di supporto che lo accompagnano per gran parte della sua struttura. Per il resto, tutto sommerso nella natura.

Il complesso è costituito dal fabbricato in acciaio (il frantoio lavico), da una torretta (che scavava nella terra), da una casetta (probabilmente luogo di riposo del custode di turno) formata da un paio di stanze che ancora conservano due casseforti, un paio di televisori ridotti a brandelli, un tavolino ed una cantina sottostante ad affiancarlo a cui non si può accedere; infine un bagno o ciò che ne resta con vista frantoio; da qui si passa in un secondo ambiente, altrimenti impossibile da raggiungere, che concede qualche dettaglio sulla storia del posto: dei registri impolverati ed ingialliti, sparsi a mucchi ed intoccabili, date le loro condizioni, su cui si annotavano, con molta probabilità, le gesta del ”gigante”.
Poche sono le notizie attendibili sulle sue origini. Secondo alcuni residenti, l’immensa area risulta essere sorta tra gli anni Trenta e Quaranta, altri sostengono sia stata opera dei primi anni del novecento, addirittura.  Ciò che è sicuro è che si ha comunque a che fare con un pezzo notevole per la storia del luogo.

Le foto non possono rendere l’idea delle condizioni in cui, io ed il mio compagno di esplorazione, siamo riusciti ad arrivare sul posto. L’erba alta a malapena ci permette di guardarci in faccia ed i rovi sono davvero massicci come massicce sono le loro spine. E poi la scaletta che conduce alla casa del custode non ha più scalini, in verità, ma dei pezzi di pietra smussati e scivolosi, ricoperti di terriccio, muschi e residui di piante secche. Raggiungere la casupola costa ancor più fatica fisica. Solo quando realizzo che ”dovrei aggrapparmi un po’ qua e un po’ là” mi incammino; la natura in questo caso sa tornarmi utile in quanto ogni tipo di movimento, che sia in salita oppure in discesa, lo faccio aggrappandomi o tirando forte. Braccia e gambe ne usciranno devastate.
E se si considera la presenza di una innumerevole quantità di insetti (api, zanzare, libellule, cavallette, grilli, e chissà quante altre specie ancora), lucertole e volatili non identificati e le modalità per raggiungere in auto l’intera area (percorso impervio fatto di strade rovinosamente sterrate) posso ritenere quella al frantoio abbandonato una delle esplorazioni più selvagge che abbia mai affrontato.

Se questo frantoio abbandonato ha stuzzicato la tua curiosità, ecco una lista di cave abbandonate. Altrimenti perché non esplorare virtualmente i luoghi abbandonati della Campania?

L’obiettivo dell’esplorazione è toccare il fondo e la cima, toccare…per vedere se la porta si apre.
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