Era da molto tempo che cercavo informazioni su questo manicomio.
Come sempre, nessuno ne sa nulla. Nessuno vuole dire la posizione.
C’è chi se la prende e rinuncia, spesso lasciandosi andare a commenti poco carini verso chi ha scelto l’omertà. Io no, comprendo bene le dinamiche etico-morali dietro all’esplorazione urbana. Continuo perciò a cercare.
Chi conosce bene il posto, me lo sconsiglia perché “è in una zonaccia”. Non demordo e, raggiunto l’obiettivo, decido di prendere precauzioni.
Solitamente non ci spostiamo in gruppi grossi. Le strutture, pericolanti e fragili, rischiano di crollare miseramente sotto dozzine di passi. Ma questa volta le priorità sono diverse: la struttura è solida, il pericolo sta negli incontri possibili.
Decido di creare un gruppo numeroso. Ci spostiamo in 11.
Entrati, subito ci accoglie l’aria pesante, sia per la polvere, sia per la carica emotiva, tipica di un ex manicomio.
Passiamo per i lunghi corridoi, attraversando cento porte, illuminati da mille finestre. Troviamo medicinali, lettini e sedie a rotelle.
Il posto è enorme e ci mettiamo parecchie ore per girarlo. Visitarlo tutto è quasi impossibile in una giornata.
La sua costruzione iniziò nel 1897 ed i primi pazienti furono internati nel 1909.
Lunghi corridoi collegano 29 padiglioni. Successivamente ne furono aggiunti quattro.
Sin da subito fu considerato un ospedale moderno e all’avanguardia. Ma il numero di pazienti salì rapidamente fino a raggiungere il sovraffollamento. Nel periodo del secondo conflitto mondiale la situazione peggiorò notevolmente.
Negli anni cinquanta venne abolita la camicia di forza, ma qui, nelle celle di isolamento, ci volle molto tempo prima che il suo utilizzo venne ritenuto realmente obsoleto e,di conseguenza, vietato.
Su altri aspetti, il manicomio in questione era considerato un modello di positività da seguire. I ricoverati erano impegnati in vari lavori come la tipografia, la calzoleria, nella fabbrica di mattonelle, nella panetteria, in una colonia agricola e venivano retribuiti. Insomma era una città nella città, autofinanziata e indipendente.
Il destino dell’edificio fu deciso, come per tutti i manicomi, dalla celebre legge Basaglia che portò alla sua inesorabile chiusura.

Nato a Potenza ma residente a Pescara da molti anni.
Valerio si è diplomato all’istituto d’arte con indirizzo di fotografia e oggi continua a coltivare questa passione attraverso la partecipazione di mostre fotografiche e articoli sull’esplorazione urbana.